Rassegna “Cinema in Abbazia”: Intervista a Ila Beka e Louise Lemoine

Ph. Linda Vukaj - CSAC

A conclusione della rassegna “Cinema in Abbazia”, organizzata da Ordine degli Architetti di Parma e CSAC, Sara Martin, docente di Storia e critica del Cinema all’Università di Parma ha raccolto un’intervista ai registi Ila Beka e Louise Lemoine, che uscirà integralmente sulla rivista accademica dell’ateneo parmense “Ricerche di s/confine. Oggetti e pratiche artistico-culturali”. Ne pubblichiamo qui in anteprima un estratto.

Ci potete raccontare com’è nata l’idea dell’ampio progetto “Living Architectures”?

Quando ci siamo incontrati abbiamo capito subito di condividere una passione, l’architettura.

Avevamo entrambi la percezione che qualcosa mancasse completamente nell’immagine e nella narrazione architettonica, qualcosa che facesse convergere diversi punti di vista soggettivi, che facesse prevalere l’esperienza rispetto all’oggetto narrato. Solo spazi vuoti, ben preparati, ripuliti e illuminati a regola d’arte. Mancava qualcosa di fondamentale: l’essere umano! 

Abbiamo cercato quindi di individuare quei punti fondamentali che avremmo voluto vedere in un film d’architettura: la mancanza di movimento, la libertà di parola agli abitanti, il disordine, i malfunzionamenti, le nostre difficoltà nell’esplorare lo spazio e quelle del mezzo cinematografico nel documentarlo, le emozioni, e soprattutto l’ironia. 

Ne è uscito il nostro primo film “Koolhaas Houselife” e da qui una lunga serie di film–esperienza che nutrono la serie LIVING ARCHITECTURES per un decennio.

Come scegliete un’opera architettonica da raccontare attraverso i vostri film? E il personaggio (o i personaggi) che la abitano?

Concentriamo la nostra attenzione su architetture, contesti urbani, grandi complessi abitativi che possiamo definire straordinari per la risposta progettuale affrontata con una certa dose di innovazione e di utopia.

Il nostro è un percorso di ricerca in crescendo, dall’abitazione unifamiliare alla metropoli, per cercare di riportare l’uomo al centro dello spazio che lui stesso si è costruito.

Abbiamo scelto luoghi iconici dove arriviamo a festa è finita e a riflettori spenti, perché crediamo che solo lontano dall’attenzione mediatica e dalla dimensione epica del luogo possiamo avvicinarci alla sua forma più autentica. Come scrisse George Perec, è interrogando l’abituale che le cose comuni possono finalmente parlare di quello che sono, di quel che siamo.

Come vi avvicinate all’opera architettonica da raccontare? Come costruite la “sceneggiatura” dei vostri lavori? 

Solitamente ci trasferiamo per periodi di tempo non brevi nei luoghi, per entrare in contatto diretto con gli abitanti e sperimentarne i ritmi di vita, per cercare di sentire sulla nostra pelle quali sono le possibilità che un luogo genera, nega, quali si sono sviluppate indipendentemente rispetto all’idea originaria di progetto, quali in aperta contrapposizione con essa.

Non c’è una sceneggiatura, il racconto si sviluppa attraverso micro-narrazioni, una selezione di casi diversissimi tra loro che ruotano intorno al luogo e con il quale generano un legame attraverso il loro passaggio. Le interviste al di fuori di lì non avrebbero più senso.

L’atteggiamento è quello della performance: non c’è un ordine finale da ricostruire, il film è un’esperienza sensoriale, una visualizzazione a posteriori del luogo attraverso la nostra personale cartografia, che è contemporaneamente spaziale, emotiva e psicologica.

Utilizziamo spesso l’ironia come mezzo d’espressione, potente strumento che, grazie alla distanza di “sicurezza” che mantiene, ci permette di suggerire anziché affermare.

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