Giovedì 4 luglio all’Abbazia di Valserena, con il documentario in prima nazionale “Wild Plants” di Nicolas Humbert, abbiamo assistito alla seconda serata della rassegna cinematografica di architettura “Wild Cities”.
Una visione dello spazio di vita dell’uomo molto diversa da quanto presentato la settimana precedente. Se in “Homo Urbanus” di Bêka e Lemoine abbiamo visto una città dura, fatta di pietra, che modella e plasma i suoi abitanti, nell’opera di Humbert la città, nella sua dimensione fisica sembra quasi ritirarsi al limite, come nelle immagini di Detroit, in cui rimane solo il simulacro della città figlia della rivoluzione industriale.
Il lungo documentario si muove fra gli Stati Uniti e la Svizzera, paese dell’autore, alla ricerca di luoghi e persone che hanno fatto dell’agricoltura urbana, o anche solo dell’atto di seminare il terreno, il tentativo di stabilire un nuovo equilibrio fra uomo e natura. L’architettura sembra quasi sparire dall’orizzonte per lasciare spazio alla non-costruzione. Quello che viene raccontato è la quotidianità di persone che hanno fatto la scelta di riprendere il contatto diretto con la coltivazione e la produzione di cibo a partire da contesti urbani diversi, siano essi le periferie abbandonate di Detroit o quelle molto più curate di Ginevra e Zurigo.
Se quanto proposto risulta sicuramente radicale, con alcuni episodi di difficile interpretazione all’interno della narrazione complessiva, il linguaggio utilizzato è invece molto delicato, lontano da letture militanti, e forse è proprio questa la cosa più interessante del film: un invito è rivalutare la dimensione della città per riprendere possesso della propria vita, passando anche attraverso la produzione del proprio cibo.
Fabio Ceci